Misteri delle nostre parti

malocchio  Tranquilli, non voglio parlare di politica.

 Una gentile interlocutrice di Facebook ha scritto che cerca chi le levi il malocchio, volgarmente detto “sdocchiara”. Le ho detto di cercarsi una magara, e qui bisogna che spieghi ai più giovani quali sono le credenze dei nostri vecchi. Poi ognuno si regoli se crederci o cavarsela con il più ottuso sorriso della ragione, però, come direbbe Shakespeare, “ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante ne possa sapere la tua filosofia”, perciò andiamo avanti.

 Il malocchio si può scagliare d’intenzione, ed è prerogativa della magia nera, o inconsapevolmente, per invidia e tristezza. Occorrono perciò amuleti (dal greco amyno, respingere), che tengono lontano il male: colore rosso, alcune pietre preziose, e soprattutto le operazioni di “cuntraffàscinu” (latino fàscinus, maledizione e incantesimo), che consistono soprattutto nel lamentarsi di qualsiasi cosa per non attirare l’invidia. Per questo il calabrese, soprattutto le donne, piangono sempre senza motivo: “u guagliuni on mangia”, di fronte a neonati di quattro chili alla nascita; perché la peggiore maledizione era far inaridire le mammelle delle madri, e condannare così il bimbo a sicura morte.

 Le magare hanno il compito di controllare e scacciare il malocchio. Usano l’olio, i fondi di caffè, lo sbadiglio. Sono donne anziane, e, di solito, benevoli. Devono essere figlie e nipoti di magare, e ricevono i poteri in chiesa la Notte di Natale. Tuttavia c’è una condizione senza la quale non si può essere buona magara: che il sacerdote al battesimo abbia scordato qualche parola. Come se in qualche modo alla cristianità si affiancasse qualcosa di pagano, di demoniaco, di una religione parallela e solo ufficialmente segreta.

 La magia nera può legare (leggete il De Martino, con i legamenti materiali documentati!), può indurre ad amori folli e colpevoli, può condurre alla follia, se si fa bere all’uomo un intruglio di cose innominabili; e persino alla morte. In età greca sono attestate le arài, nel mondo romano le defixiones. Patria dei maghi neri è l’Aspromonte.

 Per ostacolare il demonio e i suoi seguaci, si attuò la sacralizzazione del paesaggio, con la costruzione di chiesette e di edicole. Queste, in particolare, si mettono nei trivi. Trivia era infatti la triplice dea Diana Luna Ecate: dei boschi della donne dell’Averno, “triviis ululata per urbes”, canta Virgilio. I paesi erano protetti dai calvari all’inizio e alla fine. Anche le case e le persone si proteggevano con oggetti, ed evitando parole pericolose e tali da attirare il demonio.

 Gli indemoniati venivano esorcizzati nel laghetto di San Bruno; c’è chi ricorda un esorcismo al convento di Chiaravalle.

 Ci sono poi i folletti e i morti e i tesori nascosti, ma ne parleremo un’altra volta.

Ulderico Nisticò

 

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