Due applauditi concerti del coro Il mosaico di Ida Raynal, a Soverato e a Petrizzi. E siccome la prima parte è stata accompagnata da un mio testo – la seconda da uno di Francesco Brancatella – ho deciso di fare ai lettori un regalo, o, secondo gli umori, un dispetto, pubblicando la versione integrale del racconto che è stato letto magistralmente da Franco Procopio: Il burbero.
Il paese di Bellafontana era un paese come tanti altri: un poco sul mare e un poco in collina; un poco vecchio e un poco nuovo; un poco ricco e un poco povero. C’erano il sindaco, il parroco, le scuole, gli uffici, i medici, i carabinieri, i commercianti, gli avvocati, gli sfaccendati, i giovani… e ciascuno faceva le cose dei giovani, dei carabinieri, dei medici, dei parroci, degli impiegati, dei commercianti e dei sindaci; e gli sfaccendati, come la parola dice, non facevano nulla. Un paese qualsiasi, anche se i suoi abitanti credevano fermamente fosse il più bello del mondo: come tutti, anche quelli di Fontebella, storicamente rivale fin dai tempi più remoti. E che ne parliamo a fare, allora? Ma perché anche nei paesi qualsiasi possono accadere dei fatti straordinari, anche a Fontebella, e, come sentirete, pure a Bellafontana.
A Bellafontana erano in movimento per il Natale: le strade illuminate; le vetrine adornate di festoni e presepi; le vie animate; le chiese più frequentate; i ragazzi tornavano dagli studi e si davano appuntamento per il veglione. Nemmeno si dimenticavano dei bisognosi, che in paese c’erano come in tutti i paesi del mondo, alcuni perché ammalati, altri perché sfortunati, e qualcuno, ammettiamolo, perché ha la testa storta e non c’è niente da fare. Ecco, è proprio il nostro caso: Giovannino detto Sarancune per via di un soprannome del nonno, e il cognome non lo usava nessuno tranne i carabinieri che ogni tanto avevano a che fare con lui in quanto nottambulo per motivi vari. E siccome l’amore è cieco, aveva anche una moglie che pareva fatta apposta per lui, Mimma: donna Matilde, pretendeva lei, giurando che discendeva da una famiglia molto nobile. Discendeva? precipitava, scherzavano in paese. Basta, siamo cristiani e buoni cittadini, e qualcuno pensava anche a Giovannino e Mimma e i loro disgraziatissimi due bimbi.
Così il paese preparava il Natale, e chi di ragione si curava di raccogliere fondi per le feste e per le altre necessità. I commercianti si erano tassati tutti, chi più chi meno… beh, proprio tutti no.
Proprio tutti no, perché, come ogni anno, mastro Costantino il sarto non li aveva nemmeno lasciati entrare. Bravo è bravo, non lo si nega, e vengono a farsi tagliare gli abiti da lui anche dalle altre città; e si fa pagare il giusto, non si può dire che sia esoso. Puntuale, apre tutte le mattine alle otto meno un quarto – ma lui direbbe le sette e quarantacinque – e chiude alle otto e un quarto di sera: venti e quindici, nel suo freddo e antipatico linguaggio; e se assicura che un abito sarà pronto il tal giorno, potete scommettere che quel giorno esattamente sarà. Onesto e preciso, paga le tasse e le imposte e i contributi fino all’ultimo centesimo. È iscritto all’associazione commercianti e artigiani, e puntualissimo con la quota sociale. Stimato, serio, e con la vita ritirata che conduce, mastro Costantino è ritenuto tra i più ricchi del circondario.
Ogni domenica alle dieci si reca alla Messa, sempre lo stesso orario anche a Pasqua. Non gli si attribuiscono idee politiche, anzi idee in genere, ma a ogni tornata elettorale si reca alle urne.
Mastro Costantino, per farla breve, è di un’insopportabile perfezione. Superfluo raccontarvi che è senza amici, e scapolo: quando, da giovane, gli avevano combinato un fidanzamento, lo ruppe subito perché a un appuntamento la fanciulla si era presentata in ritardo. Ora starete pensando che l’autore di queste righe si sia lasciato andare a una grottesca caricatura, ma vi posso assicurare che mastro Costantino era proprio così. Gli incaricati delle collette lo sapevano benissimo, ed evitavano prudentemente la sua sartoria. Ah, dimenticavo che mastro Costantino faceva ogni anno un’offerta alla Caritas e una alla Mensa dei poveri, ente laico: e così riteneva di avere la coscienza a posto, e, sotto un certo aspetto, l’aveva. Mentre mastro Costantino alle venti e quindici chiudeva la bottega e se ne andava a casa, tutti gli altri abitanti di Bellafontana festeggiavano il Natale.
Quella di mastro Costantino non è propriamente una casa, bensì un’antica e sontuosa villa molto in disparte, davvero in carattere con l’uomo: gliela lasciò lo zio Giuliano, apprezzato sarto anche lui, che la comprò da don Pietro, negoziante fallito. Una storia di quei tempi che non varrebbe la pena di narrare, se non perché il cupo e solitario edificio, abusivo e condonato, era lungo il fiume. Il nostro fiume, chiamato Ricurvo, è un rigagnolo d’estate e un poco più gonfio in certi momenti. In altri… ma tenete a mente questo particolare.
Nell’anno… beh, l’anno che vi stiamo a raccontare successe quella vicenda curiosa. Tutto cominciò quando il dottor Bellini si recò in fretta dal sindaco per esporgli un caso davvero urgente: una bambina che, affetta da malattia rara, necessitava di un ricovero immediato; e siccome si dice che i cani mordono sempre i mendicanti, come dire che le disgrazie sanno benissimo dove andare a colpire, la bimba malata era di Giovannino e Mimma. Già quelli non hanno il becco di un quattrino, e, precisa il dottore, se si trovano in tasca un euro comprano sigarette e liquore: immaginiamo se possono ricoverare la poveretta. Ci deve pensare il Comune.
Il sindaco Zurzolo si stringe nelle spalle: un contributo, una quota, forse, con qualche ingegneria finanziaria… ma non è un segreto che l’Ente… il sindaco non entrò nei particolari, anche perché il dottor Bellini era il capo dell’opposizione. Il medico andò subito dal parroco don Biagio, il quale promise la sua parte, però, che dobbiamo fare? Anche lui, nei limiti di questo momento di inspiegabile ma pesantissima crisi mondiale, e figuratevi a Bellafontana …
Messe da parte le divergenze teologiche e politiche, si diedero tutti da fare per una colletta. Come fu, come non fu, nel volgere di una settimana avevano raccolto qualche migliaio di euro… Poco, troppo poco. C’è l’intervento, c’è il viaggio, altre spese…
Abbiamo raschiato il fondo del barile…
Siamo alla frutta…
Spremuto è il limone…
E via con tutte le più deprimenti metafore atte a indicare che non sapevano più dove sbattere la testa… a meno che… a meno che…
Già a meno che qualcuno non trovasse il coraggio di andare a bussare anche da mastro Costantino. Come fosse una rischiosa operazione di guerra in prima linea, estrassero a sorte, e toccò all’assessore Percoco. Egli si fece coraggio, indossò il suo vestito più elegante, sfoggiò un sorriso a trentotto denti… e se ne tornò con le pive nel sacco.
“Non voglio fare del bene a nessuno; io ho già pagato nei modi che sapete; io non intendo aggiungere nemmeno un centesimo: io non do più niente a nessuno; io non ho bisogno di niente e di nessuno!”
Così aveva gridato mastro Costantino, stupito di aver detto tante parole in un momento solo, egli solitamente muto tranne che per strette ragioni lavorative.
Percoco riferì, deluso. Che fare? Boh, propose qualcuno, proveremo con una lotteria. Non era un’idea molto originale, e in quei giorni di Natale di lotterie e collette se ne fanno a iosa… Non c’è niente da fare, pensavano in cuor loro.
A questo ce ne possiamo andare, e la favola è finita, finita male! Già, ma il gusto delle favole, e qualche volta persino quello della realtà, è che non finiscono mai come sono iniziate, e il sugo della vita è sempre l’inatteso. Sentite, sentite.
Era una notte buia e tempestosa… Beh, un po’ scontato. Diciamo che si mise a piovere, una goccia, due gocce, tre gocce, un diluvio di gocce, come capita qui da noi che dall’estate torrida passiamo subito a un breve e torrenziale inverno. Tuoni, lampi, saette, fulmini e nuvole nere; e noi che siamo abituati al sole, tutti chiusi in casa. Tutti, beh, quasi. Chi è che vaga nel buio, nel nostro paese di Bellafontana? Ma sì, lo sapete, Giovannino, che o litigava con Mimma, o aveva bevuto o andava a rubacchiare qualcosa, di notte se ne andava a passeggio e non dormiva mai.
Quando piove più di un’ora, i nostri fossi e fossati si riempiono d’acqua, e quando l’acqua non trova più posto, via addosso ai torrenti, i quali diventano fiumi, e i fiumi paiono un mare. Una persona sensata non costruisce sul greto del fiume, ma non era certo una persona sensata don Pietro, e nemmeno zio Giuliano che comprò la villa allettato dal prezzo di svendita. Peggio per loro, se non fosse che sono morti, e invece è vivo mastro Costantino che vi abita ora. Vivo, però in serio pericolo di vivere ben poco, da quando l’onda del Ricurvo, il fiumiciattolo impazzito, si è riversata anche sopra la sua villa. Costantino dal balcone grida e grida, ma in quella notte di streghe e diavoli, non lo può sentire nessuno. Telefono? Linee mute! Cellulare e internet… non sono cose per il vecchio e burbero e passatista mastro Costantino; a parte che nemmeno funzionano, tra una furia e l’altra del cielo.
Fatevi due risate, amici miei! Risate sì, dense di significato. Lo prende, lo butta giù nell’acqua che sale, lo porta via a forza mentre grida come una papera, segue la corrente, arriva sopra una collina, rianima il suo peso… che manco sa chi è, e non gliene importa. Soggetto sottinteso, come diciamo noi professori… Non lo avete capito? Giovannino! Solo lui se ne va in giro di notte. Ha salvato mastro Costantino, e nemmeno sa chi sia e non gliene importa più di tanto. Glielo diranno il giorno dopo, con la notizia che Costantino è messo male, però se la caverà.
Ora ha imparato che tutti possiamo avere bisogno di tutti, anche di chi non vorremmo mai; e da allora mastro Costantino è diventato generoso, sì, e, quel che più meraviglia il paese di Bellafontana, anche allegro, simpatico e cordiale. Ha dato una festa nella sua villa o quel che ne rimane, e ora tutti i concittadini pensano che il bello dei miracoli è che ogni tanto succedono.
Raccontino semplice semplice, via, però con un suo significato, soprattutto di questi tempi e ancor più soprattutto a Soverato.
Ulderico Nisticò