La città metropolitana di Reggio, forse era meglio tutto maiuscole, è la terzultima d’Italia, stando al Sole 24ore che non è un volantino sindacale o il comunicato del convegno sulle patate, ma il foglio per eccellenza dell’economia italiana; e la sua valutazione era complessiva, andava oltre i meri indicatori economici e finanziari. Catanzaro mi pare fosse messa meno peggio, di poco; e così via.
Trascorre una settimana dall’uscita delle statistiche, e in Calabria dilaga il silenzio più cupo. Facciamo un esempio: se uno scrivesse che io abito a Soverato in via I maggio 13, ciò sarebbe la purissima verità, e non avrei alcun motivo per replicare; ma se quello stesso uno scrivesse che io, che so, sono stato colpevole del Diluvio Universale lasciando aperto un rubinetto, allora io smentirei nella maniera più clamorosa. Se no, sarebbe applicazione del principio che chi tace acconsente. Così tutti gli abitanti di Reggio Calabria, in testa Scopelliti che ne è stato sindaco, dovrebbero esprimersi sulla taccia di terzultima, o negando che ciò sia; o ammettendolo e spiegandolo e affacciando delle proposte per rimediare al lamentoso stato di cose. Invece, silenzio assoluto della stampa, del TG3, degli intellettuali, dei partiti, delle forze politiche e sindacali, degli ecclesiastici e scusate se ho dimenticato qualcuno in questo elenco di muti, e se ho dimenticato è per pura smemoratezza e non per giustificare alcunché o chicchessia. Il silenzio è prova che è tutto vero, e Reggio è terzultima per qualità della vita.
Ovviamente nessuno replicherà nemmeno a questo scritto, né per essere d’accordo né per tacciarmi di tradimento della patria né per qualsiasi altra ragione: omertà al contrario! Già l’omertà è che uno vede e non parla; qui c’è uno che parla, e gli altri non vedono. Rincariamo la dose.
Cos’è che non va, poniamo, a Reggio di Calabria? Beh, se uno arriva all’improvviso a piazza Italia di sera, vede stormi di donne ingioiellate e coperte di pelliccia anche il 15 agosto; s’informa, e viene a sapere che c’è un’università statale e una non si sa bene ma c’è; che la città ha 200.000 anime, ed è perciò l’unica in Calabria a non doversi dire paesone… E allora? E allora quello che non va è che quel tizio che viene da fuori si domanda: “Di grazia, tutto questo come si mantiene? Quali industrie, commerci, servizi?” E si dà subito una risposta zero. Lo stesso, anzi più in grande, per Palermo e per Napoli, Caserta e altre in fondo.
La prima condizione perché un luogo abitato possa dirsi sano e vivace è che mangi del proprio, anzi attiri a sé risorse altrui: tale è, infatti, la funzione storica della città, fungere da intermediazione di un territorio a sua volta produttivo di qualcosa. Non è il nostro caso né a Napoli né a Palermo né a Reggio; e in tutti e tre gli esempi si deve costatare che i pochi servizi e la poca produzione sono sproporzionati al numero degli abitanti. Detto terra terra, quale percentuale della popolazione campa in zone d’ombra o di espedienti o di equilibrismi finanziari, o, ahimè, di delinquenza più o meno organizzata?
Secondo i massoni, la colpa è degli Spagnoli, i quali però non ci sono più dal 1708, 305 anni fa; secondo i borbonici della domenica, la colpa è di “Garubbaddo” e del “Saboia”, che sono però roba di 153 anni addietro; secondo me, la colpa è delle classi dirigenti – politiche, culturali, imprenditoriali, ecclesiastiche eccetera – e del popolo che le sostiene: popolo e classi del 2013, non dei tempi del cucco e della Magna Grecia. Popolo e classi che forse la qualità della vita non tanto la vogliono: essa, infatti, ha indubbi vantaggi, però richiede una cosa chiamata prestazione d’opera manuale e mentale. È di questa che io non vedo molte tracce.
Non volendo prestare opera, non si affanneranno nemmeno a rispondere.
Ulderico Nisticò