«Campioni del mondo, campioni del mondo». L’urlo del telecronista risuonava ancora nell’aria quando in tutte le piazze della Penisola il delirio era appena agli inizi. E non appena Fabio Cannavaro alzò la coppa – in quella magica notte di Berlino nel 2006 – la gioia fu irrefrenabile in tutto il Paese. Tutto. «Dalle Alpi fino alla Sicilia le piazze si sono riempite in un battibaleno. La festa non ha fine», titolarono i giornali la mattina successiva. Non ci fu uno che in quella notte – in nessuna delle venti Regioni italiane – pensò di non essere italiano. Nessuno. Ma l’incanto dura sempre una notte, e dal mattino successivo in diecimilioni si ricordarono di essere meno italiani degli altri. O più italiani, dipende dai punti di vista. Sono quei diecimilioni di cittadini che vivono in una delle cinque Regioni a Statuto speciale, e che per questo godono di privilegi che non condividono con gli altri. Specialità che nacquero una sessantina di anni fa, – come spiega Pierfrancesco De Robertis nel suo ultimo libro La Casta a Statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubbettino, – quando il mondo era molto diverso da adesso, ed esistevano ragioni di ordine politico, internazionale, sociale ed economico che le giustificavano: la Sicilia e l’Alto Adige erano sull’orlo della secessione, la Valle d’Aosta era mezzo francese, la Sardegna durante la guerra appena conclusa era stata considerata al pari di una portaerei, il Friuli Venezia Giulia (speciale solo nel 1963) era più al di là che al di qua della Cortina… Tutte ragioni valide, che oggi non ci sono più. Neppure una. Come in fondo è naturale che sia: è morta l’Urss, si sono riunificate le due Germanie, possiamo pensare che solo in Italia tutto resti com’era sessanta anni fa? Di quell’assetto istituzionale restano solo i privilegi e le ingiustizie. Perché garantire a diecimilioni di cittadini un trattamento di favore rispetto agli altri quarantotto è, con i chiari di luna economici attuali, qualcosa di pazzesco. Inaudito. A questo punto c’è da augurarsi che nell’imminente confronto sulle riforme istituzionali, di cui pare siamo alla vigilia, del tema «Regioni speciali»_ si possa parlare senza subire il solito ricatto che da quarant’anni le forze autonomiste locali avanzano alla classe politica «romana»_, garantendo appoggi parlamentari in cambio di soldi e concessioni. Loro l’interesse generale e l’idea di nazione se li sono scordati da tempo, e ragionano come un piccolo sindacato di territorio. I politici «nazionali»_ non hanno il coraggio di guardare oltre l’orizzonte del proprio piccolo futuro politico personale, e quei ricatti non hanno il coraggio di respingerli al mittente. Il resto dell’Italia rimane in mezzo a questo corto circuito, e affonda.