Venerdì 15 ho tenuto all’Università della Terza Età una conversazione dal curioso titolo “Ricchezza o fame?”, sull’economia storica del nostro territorio, e sull’economia storica in genere. I nostri vecchi erano ricchi, o morivano di fame?
Già, circolano curiosi libri di grandissimo e immeritato successo, i quali vanno raccontando che il Meridione ante 1860 era niente di meno che la terza potenza industriale del mondo, e dico mondo! I lettori e seguaci se ne convincono grazie all’uso distorto della parola: “polo siderurgico” per quella che era un’onesta ferriera di Stato; eccetera. Facile sbarazzarsi di questa vanagloria da “mio nonno era barone”, un classico della frustrazione piccolo borghese meridionale.
Ma nemmeno risponde al vero la narrazione di maniera su una lamentata miseria del Meridione. Intanto restano tracce e dati che confutano tale luogo comune. Alla metà del XVII secolo la Calabria contava, su dati ufficiali e sottostimati, 550.000 abitanti, cioè un 5% della popolazione italiana; oggi, con i suoi due milioni, ma tantissimi sono stabilmente fuori, è molto di meno. Nella seconda metà del XVIII secolo, 700.000. Del resto la Calabria fu, fino ai primi dell’Ottocento, terra d’immigrazione e non del contrario.
Basterebbero questi numeri a fare della Calabria una terra media, senza né grandi ricchezze né diffusa miseria; ma è il metodo che è sbagliato, in una simile impostazione del problema. Molto spesso economisti e storici accademici commettono, infatti, l’errore di leggere il passato alla luce del presente o il contrario, e ve ne darò un evidente esempio: quanto costa un maiale?
Posto che un maiale di buona taglia costi, in denaro, diciamo 1.000 euro, nelle comunità contadine, un maiale costava più o meno di 1.000 euro? Appunto, è la domanda che è sbagliata: l’utilità che la macellazione e preparazione del maiale forniva alla famiglia, e anche la cura e fatica dell’allevamento, non possono essere misurate in denaro, ma in beni reali e risposta a esigenze di nutrizione. Lo stesso per la terra e i suoi prodotti, che, se mangiati danno un’utilità che, se venduti, non darebbero mai.
Il denaro era, infatti, un bene rifugio, e non un mezzo di intermediazione degli scambi, i quali avvenivano soprattutto per baratto; come il lavoro si svolgeva su base familiare e per cooperativa di fatto tra compari e parenti e vicini. Se necessario per qualche impellenza, il denaro doveva essere ottenuto da chi l’aveva, che lo concedeva a interesse senza dubbio superiore al valore reale.
Il mezzo primario di produzione del reddito, la terra, era, generalmente, il “pezzettino”, forma dialettale del bizantino “petzì”, su cui una famiglia riusciva a vivere. Il possesso era di fatto, senza andare per il sottile sulla proprietà.
Si aggiungeva, con incidenza determinante, la raccolta di beni spontanei quali castagne, funghi, lumache…
Le comunità antiche erano complesse, e richiedevano infinite specifiche competenze oggi scomparse o rare da molto tempo: fabbro, maniscalco, veterinario empirico, tessitore, banditore, calzolaio, preti, monaci… e spesso le attività coesistevano, e sempre con l’agricoltura di sussistenza e l’allevamento di bestiame da consumo.
La struttura fondamentale è la famiglia, in genere numerosa e con suddivisione dei compiti tra i sessi e le età; e una seria disciplina di cui era simbolo il padre, ma che era imposta soprattutto dalle donne, e tanto più se più anziane.
Le condizioni di vita e di salute e l’età media erano, secondo i tempi, soddisfacenti, e certo meno infelici delle tristi città borghesi europee.
Rari gli eventi traumatici: quando divampò la rivolta antifrancese del 1799 e del 1806, era dai tempi di Masaniello, il 1647, che in Calabria non succedeva nulla di politicamente e militarmente rilevante.
Tragedia della Calabria furono i terremoti, in particolare quello del 1783: e tuttavia ogni volta i paesi vennero ricostruiti; o, infine, abbandonati per trasferirsi in luoghi più salubri o più comodi.
Altro discorso, e più connesso all’economia finanziaria, sono l’allevamento di pecore da lana, la pesca e salagione, la seta e la sua filatura; e l’agricoltura di grande quantità – grano e olio – o di qualità dei “giardini”. Altro le innovazioni tecnologiche dell’epoca: mulini, gualchiere… Altro ancora l’economia delle piccole solide città come Catanzaro, in cui si viveva necessariamente di circolazione monetaria, ma ne diremo un’altra volta.
Si richiederebbe ben più ampio spazio, ma qui possiamo rispondere, per quanto abbiamo detto, che nel nostro passato non ci fu nessuna ricchezza e nessuna fame.
Quali furono le conseguenze politiche e sociali? L’assenza di classi sociali, e perciò di partiti: donde l’attuale assenza di partiti e vita politica in Calabria; e la debolezza di tensioni ideali, donde la mancanza di una poesia della tragicità della vita. Discorso troppo lungo, lo riprenderemo.
Ulderico Nisticò