C1. “..ià ca’ ti portai u cafè..”
C..”..ho ancora sonno..”
C1. “..non fare storie, moviti ca’ si ffridda..non hai a ‘ffari storii, sugnu autorizzatu i ti ‘mmazzu, capiscisti?????..”
E’ l’estate del 1993. La ‘ndrangheta calabrese compie l’ultimo dei tanti sequestri di persona che hanno caratterizzato un ventennio in Calabria, in particolare la provincia di Reggio.
Questa è la storia di Adolfo Cartisano, detto Lollò, un fotografo di Bovalino che non tornò mai più a casa.
Di lui si persero le tracce, nonostante le trattative e la consegna da parte dei familiari di una somma di 200 milioni di lire.
..“Sugnu u carcereri ‘i vostru maritu, sugnu davanti a diu pentitu..”
Solo uno dei carcerieri pentito, dopo dieci anni, e grazie alla caparbietà di Deborah Cartisano figlia del sequestrato, rivelò con una lettera scritta maldestramente a macchina, il luogo dove fu sepolto.
Si, perché Deborah ogni anno scriveva una lettera ai sequestratori chiedendo prima notizie della sorte del padre; dopo anni, perse le speranze di rivederlo in vita, chiedeva di potergli almeno realizzare una tomba.
Questa vicenda diventerà un film che non è una cronostoria dei fatti, li conoscono tutti, ma racconterà uno spaccato emozionale di vite opposte che si sono incrociate, destini comuni che si sono incontrati, carichi di amaro: quello del sequestrato e quello del sequestratore. Ciò che li accomuna sono i luoghi di selvaggia bellezza, l’Aspromonte, lo stesso humus culturale ma vissuto in modo diverso, la condivisione della stessa paura e forse della consapevolezza di essere finiti in un tunnel senza luce.
L’idea di Renato Mollica, direttore artistico dell’Epizephry International Film Festival nonché regista del mediometraggio, è stata presentata il 26 marzo scorso al Premio per la Legalità a Sant’Ilario dello Jonio. Vale mille storie perché narra anche un periodo, una cultura, un territorio, linguaggi e sentimenti simbolo di un’epoca e di un malessere sociale trasformatosi nel tempo.
La sensibilità dei due personaggi più che espressa in parole, è data dalla condivisione di spazi, tempi e silenzi, densi di significato. Un violento incontro di emozioni, turbolenze umorali, conflitti inesplosi e sedati dal “buon senso” di voler concludere bene quella “operazione”.
Ma cosa ne sappiamo di quanto accadeva dentro il tugurio nero e imperscrutabile che segregava il bello e brillante fotografo di Bovalino, Lollò.??.
Non lo sapremo mai ma abbiamo potuto immaginarlo senza molti margini di errore, consapevoli e motivati dalla convinzione che quei giorni e notti di paure e percezioni, durati mesi, siano un patrimonio di aspra e feroce umanità senza tempo e storia.
E’ l’intreccio imperfetto del bene e del male che coesistono nell’uomo di sempre.
Il valore di questo progetto non è di memoria soltanto ma di invito all’osservazione e all’analisi del rapporto tra l’uomo, la sua coscienza e il fuori dal sè.
Si è pensato a Lollò come a un pulcino spaurito. I suoi occhi nel buio, due lucine bianche che cercano un perché, dopo essere passato dalla felicità di una giornata di mare con gli affetti familiari ad un bivacco stretto e nero dove solo una sagoma, un’ombra scura e goffa, gli sta vicino, guardia di un corpo immobilizzato.
Non meno impaurito è il carceriere, incaricato di “assistere” il prigioniero. Fa parte della cosca ma probabilmente è solo manovalanza. Tutto questo non gli rende la vita facile, in fondo conosce Lollò, gli sta anche simpatico, lo vedeva sempre in giro. Adesso che gli è davanti, invece gli tocca fare il duro.
Non ci riesce fino in fondo. Anzi, forse qualche volta, senza essere visto, avrà pianto anche lui per questo dramma.
I giorni scorrono e anche le stagioni e Lollò che in un giorno di luglio aveva lasciato con la forza la sua bella villetta che guarda il mare, per un po’ in quella prigione, crede di farcela. E così si allena al ritorno alla vita, e il suo carceriere con la liberazione del suo “ospite”, spera di liberare anche la sua coscienza. Lo fa diventando quasi suo amico, passando del tempo con lui e parlando un po’ di sè. Sprazzi di normalità mentre ancora vola qualche elicottero sul loro capo.
“Carceriere di mio padre, io vorrei incontrarti…”,
La figlia di Lollò continua a battersi per la verità, scrivendo lettere a chi sa di suo padre, organizzando cortei.
E la figura del vecchio e dimenticato Zaleuco, legislatore locrese di duemila anni fa, è un severo e sconcertato fantasma che viaggia nel film, apparendo dalle asperità aspromontane e ammonendo il mondo reale.
Nel silenzio degli alberi che non parlano, si è immaginato che forse il prigioniero e il suo guardiano, cominciano a fidarsi reciprocamente e quando il momento della felice conclusione della vicenda sembra vicino, un passamontagna complice la pioggia, fa la differenza. E il viso di quest’ultimo, dopo mesi di anonimato, appare allo sguardo di Lollò. Ed è la sua condanna.
Qui ci si ferma. La cronaca ci ha raccontato. I momenti finali sono sconosciuti.
Si è voluto immaginare che in un contesto drammatico e dall’epilogo così tragico, forse ci sarà stato qualche lampo di coscienza e umano sentimento di bontà, di debolezza. Un punto d’incontro di emozioni tra due persone in difficoltà. Il carceriere non meno incastrato del carcerato. La metafora della sopraffazione anche di chi subisce il condizionamento culturale nelle pieghe della ‘ndrangheta. Tutti vittime.
In questo modo, pur riconoscendo il vivere miserabile e deplorevole della malavita, troviamo anche un’ inconsapevole attitudine autopunitiva dall’imprinting infelice che l’esistenza criminosa s’infligge. Nello scrivere questa sceneggiatura, si ricorda la vicenda di Lollò come simbolo di tutte le vittime della mafia, dando un senso di speranza, un’alternativa lettura della malvagità, figlia dell’ignoranza, però a volte vinta da qualche buona emozione. La ricerca ostinata di una ipotesi di speranza nel cambiamento.
E così nel buio più totale, anch’esso metafora dell’ottenebrazione della mente, della cultura e dello spirito, Lollò muore forse per fatalità, nel grido stridulo e disperato non suo, “Malujoooooooooooooornuuuuuuuù..”. ma del carceriere che proprio perchè è vivo, rimane intrappolato in una tragedia aperta di morte che è anche la sua, ma dell’anima.
Questo caso ha visto nascere anche la versione ancor più impegnativa ed ambiziosa di un lungometraggio, scritta dall’inviato speciale Rai TG1 Francesco Brancatella.
Il giornalista che ha già realizzato toccanti reportages sulle vittime della mafia, tra cui lo speciale “Donne del Sud”, con questo nuovo progetto affonda ancor più approfonditamente lo sguardo in queste storie e nella cultura di un fenomeno, quello dei sequestri di persona, rimasti per sempre scolpiti nella cronaca e nella mente del nostro Paese.
Vittoria Camobreco – Sceneggiatrice di “Malujornu”