In questi giorni ultimissimi di febbraio sono angustiato dal catarro, e qui mi capisce ogni umano; e da un’angoscia che solo un classicista può provare, ma è triste e profonda come il pozzo di San Patrizio. In mio calabro e soveratano dialetto mi sento, infatti, ‘mbrachatu. Dite voi, e con questo? Sarà il greco, la tosse. Sì, il greco, ma quello comune e neogreco è βρηχός (brekhòs, con eta), perciò dovrei essere ‘mbrichatu o al massimo ‘mbrechatu, e invece sono ‘mbrachatu con una a che mi viene da βρᾱχός (brᾱkhòs)acheo, dorico, occidentale, eolico, tessalo: tutto meno che ionico-attico e koinè, perciò nemmeno romeo (bizantino).
Mentre dunque spero che mi passi presto βρᾱχός o βρηχός che dir si voglia, devo rendere atto al Rohlfs su qualche possibile sopravvivenza di greco antico nel dialetto calabrese. Resto ben convinto che sintassi e grammatica che restano nel mio dialetto siano neogreche e romee (bizantine), e così onomastica e toponomastica e agiografia. Però a ogni colpo di βρηχός mi punge qualche piccolo dubbio. Initium sapientiae dubium est, e mica solo in filologia.
Dite voi, ma con le elezioni comunali imminenti, tu ti preoccupi del tessalo e dell’attico di non so quante decine di secoli fa? E già, ragazzi, quando penso alle comunali, è quello il momento in cui mi viene la tosse, da qualunque accidenti di dialetto defunto la mia ‘mbrachatura derivi.
Ulderico Nisticò