Bruno Pelaggi, il poeta di Serra S. B., morì nel 1912, e, a parte un convegno carbonaro, nel 2012 non lo ricordò nessuno. Alla fine dell’anno, si annunziò che le celebrazioni sarebbero avvenute nel 2013, comunicazione che fece la fine delle parole delle donne secondo Catullo: nel vento e nell’acqua. Ma la Calabria non ha celebrato san Francesco di Paola, di che vi meravigliate? Finalmente, a 2014 quasi finito, ma finalmente, una rinata o rinnovata Proloco serrese ha preso in mano l’iniziativa con un premio letterario e un convegno, e lode a Michele Vinci, la moderatrice Daniela Rabia, al presidente Francesco Giancotti e al direttore della rivista “Santa Maria del bosco”, Domeniko Calvetta; ai relatori Mimmo Stirparo, Biagio Pelaia, Franco Gambino, Maurizio Onda, Ulderico Nisticò.
Mastro Bruno è molto popolare, e poco noto ai dotti, a parte alcune edizioni di quanto si è conservato dei suoi versi, quelle di Sharo Gambino, Gianpiero Nisticò e del Pelaia nipote del Pelaggi.
“Iu poeta no su, ca scarpirhinu”, ed era scalpellino di professione: gli si attribuiscono alcuni pregevoli lavori. Apparteneva dunque all’antica e potente “mastranza” serrese, portatrice di una tradizione del mestiere che era anche una cultura, derivando dai frequenti contatti con la Certosa e gli artisti che nei secoli vi lavorarono o inviarono i loro lavori. Egli stesso, amico del ministro Chimirri, fu consigliere comunale e priore della Confraternita. Oziosa è la domanda se sapesse scrivere, perché neanche Giulio Cesare vergò i Commentari di suo pugno!
Notevole è una riflessione sul dialetto di mastro Bruno, che è quello di Serra con tutti gli intercalari anche truculenti, ma spesso raffinato da apporti di italianismi. Usa polimetri e rime, e poco conta che non avesse studiato letteratura per saperlo.
Scherza amaramente sui suoi tempi. “Simu taliani, gridamma lu Sessanta; mo senti comu canta la cicala”, esprimendo un sentimento assai diffuso, e non solo nel Sud, la delusione per un’unità cui tutti avevano attribuito troppa valenza; e che costava un prezzo alto in tasse e in abbandono di attività che, come Mongiana, vivevano di commesse statali più che di vita propria. “Cu pota, sinda scappa a Nova Iorca”, l’inizio dell’emigrazione.
Scrive perciò duramente al re, persino a Dio (“non vidi, Patraternu, lu mundu ma sdarrupi ch’è abitatu de lupi e piscicani?”), infine al diavolo!
Ma è anche poeta intimistico e simpatico cantore della quotidianità, sapendo giocare sui piccoli fatti del paese: “Na vota catta Rosa, e vittamu ‘ncarcosa, quantu catta…”. O si rivolge alla Luna per sfogare la malinconia.
Una figura di squisita umanità. Se non fossimo in Calabria, proporrei un film su di lui, che sarebbe la ricostruzione di un’epoca e di un popolo. Ma lo siamo, e sarei già contento se mi aiutassero a metterlo in teatro.
Lode alla Proloco di Serra.
Ulderico Nisticò