Quando Giovanni Bosco era ancora un seminarista, la Chiesa, uscita dalle esperienze traumatiche della rivoluzione e di Napoleone, versava in uno stato psicologico di separazione dal mondo moderno, che identificava, non sempre a torto, con ideologie liberali e massoniche se non giacobine, comunque materialiste e atee; e si schierava di fatto dalla parte delle monarchie restaurate nel 1814. Non era stata elaborata, e non lo sarà fino alla Rerum novarum, una dottrina sociale che desse un’interpretazione cattolica delle esigenze del mondo ottocentesco. Si diffondevano movimenti che finivano per allontanarsi dall’ortodossia: lo spiritualismo, una versione approssimativa e retorica dell’idealismo tedesco, così spiritosamente derisa dal Leopardi; il modernismo, che diverrà, sempre approssimativamente, eretico. Erano comunque sintomi di inquietudine e di bisogno insoddisfatto di una spiegazione cristiana e cattolica dei fenomeni sociali.
Lo sviluppo dell’industria capitalistica si era fondato sullo sfruttamento degli operai, mal retribuiti e abbandonati al disordine e a ideologie sovversive. Torino iniziava la sua industrializzazione attirando dalle campagne dei giovani che, sradicati dalla famiglia e dalle tradizioni, non trovavano alcun punto di riferimento morale e personale nella città. Don Bosco, in mezzo a gravissime difficoltà e dure opposizioni anche da parte di gerarchie ecclesiastiche, affrontò la questione avendo due cardini del pensiero e dell’azione: l’indiscussa fedeltà alla dottrina e all’autorità della Chiesa di Roma e del papa, e l’esigenza di venire incontro al ceto operaio. Accettava così la realtà contemporanea, senza però subire l’interpretazione che essa dovesse essere contrapposta alla Fede.
Trovava del resto fondamento nel pensiero di san Tommaso d’Aquino e nell’azione dei due grandi santi del XIII secolo, Francesco e Domenico, che avevano fornito risposte alle trasformazioni del Medioevo da strutture agricole e feudali a quelle cittadine e mercantili: basti l’esempio della lingua italiana, di cui san Francesco è il primo creatore.
Don Bosco, in una situazione non molto diversa, comprese i tempi, e rispose con la creazione dell’oratorio come luogo di preghiera, ma anche di educazione e istruzione, al fine di formare dei lavoratori intanto tecnicamente istruiti e perciò in grado di farsi rispettare, e soprattutto moralmente saldi e perciò affidabili. Non più masse brute come i “miserabili” francesi o l’estremo degrado di Londra e della stessa Torino, ma “buoni cristiani e onesti cittadini”: due termini che, nel Piemonte liberale dopo il 1848 e anticlericale dopo le Leggi Siccardi del 1850, non erano per niente sinonimi, ma piuttosto contrari.
Don Bosco, che liberale non era certo e, secondo i tempi, sarebbe da definire piuttosto un reazionario, tuttavia scelse di affrontare con spirito positivo le circostanze anche politiche e sociali del Regno di Sardegna, come farà con l’Italia unita; e ne fu ricambiato dai meno arrabbiati e fanatici dello stesso fronte liberale, che apprezzarono la sua opera sociale. Si racconta sia stato Rattazzi, in un colloquio riservato, ad avvertire, ammiccando, don Bosco: “Se lei fonda un Ordine religioso, io la faccio arrestare; se lei invece dà vita a una Congregazione secolare, non viola la legge”, donde la “Pia societas Salesianorum”. Né don Bosco esitò a chiedere soccorsi a tutti, dall’aiuto personale di buoni cattolici… ai sostegni finanziari di semplici bacchettoni e bigotti, quando non di tutt’altro sentire.
Formati i suoi giovani, trattava i contratti di lavoro, forte della loro dignità umana e professionale: inizio di un serio e fattivo sindacalismo, che egli forse avrebbe chiamato, com’era, corporativo secondo le consuetudini medioevali. Era l’idea tomistica del lavoro e dell’economia, che devono essere rette dal “iustum pretium” anche della retribuzione: se l’applicassimo oggi, non saremmo nel disastro in cui versiamo.
Quando don Bosco, e più ancora il suo primo successore don Rua, si accorsero che la società italiana, dopo l’unità e con grandi fatiche e contrasti, ma comunque stava evolvendo, alle scuole tecniche vennero affiancate quelle umanistiche, di cui sentiva l’esigenza una borghesia che non doveva essere abbandonata a una mentalità massonica e laicista: donde anche la presenza dei Salesiani a Soverato, così importante per la storia religiosa, culturale e sociale della nostra comunità.
Non ho detto nulla della santità di don Bosco, perché la ritengo ben nota, come in Cielo, anche su questa terra. Non altrettanto spesso si riflette, forse, sulla sua opera di pedagogista e di organizzatore sociale, cui abbiamo dedicato queste poche righe.
Ulderico Nisticò
ARTICOLO CORRELATO
Soverato – Al via le celebrazioni dei Salesiani per il Bicentenario della nascita di don Bosco