Come ogni avvenimento di cronaca destinato a destare clamore, anche la terribile vicenda di Fabiana Luzzi, accoltellata e arsa – ancora viva – dal suo fidanzato, ha suscitato un continuo crescendo di scalpore. Il triste avvenimento, sui paginoni centrali delle più importanti testate, è caduto nel vortice della centrifuga mediatica, contrapponendo così due distinti “schieramenti”: da una parte, l’onnipresente sciacallaggio di alcuni giornalisti, senza il minimo senso critico, votati a portare avanti una “crociata anti – Calabria”, ogni qual volta se ne presenta l’occasione; dall’altro lato, cittadini calabresi e non, che non accettano le esasperazioni dei media nei confronti di una realtà che li riguarda da vicino, una realtà che solo loro hanno il diritto di giudicare.
Una piccola precisazione va fatta però: abbiamo visto molteplici risposte alle offese verso la dignità di una intera ragione, ma abbiamo visto anche come alcuni di loro si sono difesi, difendendo implicitamente tutti quanti gli altri, affermando banalmente che in “Calabria queste cose non succedono, perché non ne abbiamo di questi problemi. La Calabria è la Terra del Sole, del mare, e della bella gente”. Queste erano le argomentazioni in risposta, di molte lettere; troppo scadenti e miserevoli. Da calabrese mi sento più offeso nel momento in cui rispondiamo con una povera argomentazione a forti accuse, che dalle accuse stesse.
E’ sbagliato l’approccio sia degli accusatori che degli accusati. Molti giornalisti hanno la libertà di pensare, e pretendono allo stesso prezzo la libertà di scrivere; e molti, sentendosi chiamati in causa, non sanno appigliarsi che agli alambicchi della rabbia, innescando un processo di accuse contro accuse, che non produce altro che un effetto di ritorsione per quelli che non hanno la possibilità di parlare. E indovinate un po’ chi rimette fra noi, e i giornalisti?
La brutalità di alcune azioni commesse dall’uomo prescinde dalla latitudine, cari giornalisti. E’ innegabile che la Calabria abbia molteplici lacune, muovendo da un processo storico fermatosi a metà, passando per quello culturale, per approdare a quello economico. Ma è anche innegabile come i media scrivano a doppia facciata: serafici e loquaci quando l’assassino è di Novara, di Asti, o di Varese, spietati e velenosi quando lo stupratore è di Caltanissetta, di Cosenza, o di Bari. Smettiamola con questo federalismo della domenica, smettiamola di differenziare “italiani del Sud con “italiani del Nord, seppur ideologicamente. L’unica colpa che abbiamo è quella di vivere in una terra che è stata stuprata per secoli, vittima delle angherie piemontesi, dei soprusi dei Mille, delle bugie di politici benpensanti e dimenticata da chi prometteva riforme. E non si dica che i calabresi siano tutti “lupara e analfabetismo”, perché chi sta scrivendo è gente onesta, come la maggior parte di chi non accetterà queste critiche, – come la maggior parte dei calabresi, come la maggior parte degli italiani, come la maggior parte degli abitanti di questo pianeta -, che studia si, fuori sede, ma con una famiglia alle spalle, che ha lavorato anni in quella terra che per voi è l’inferno, cercando di dare la possibilità ad un figlio di poter trovare una via, un percorso, che un domani lo possa portare a riscattarsi, oppresso dalla condizione in cui versa un intero Paese, per colpa anche, di persone come voi.
Pare che questi cari giornalisti abbiano voluto pronunciarsi pensando di fornire, a chi non vive e conosce la realtà calabrese , lo strumento d’analisi che ritengono più efficace per approfondire la vicenda: a detta loro sembrerebbe sufficiente la contestualizzazione dell’accaduto nello specifico entroterra calabrese per comprendere la violenza effettuata ai danni delle donne in quanto tali, ossia in quanto appartenenti al genere femminile; questo implica la presupposizione meccanicistica e riduzionistica di una logica causa-effetto tra variabili demografiche, socioculturali e prototipi di atteggiamenti e comportamenti di stampo maschilista, patriarcale, violento, conservatore e arretrato. Il nostro strumento d’analisi, invece, è semplicemente più realistico e finalizzato ad ampliare lo sguardo piuttosto che restringerlo, a superare qualsiasi forma di visione etnocentrica e di allarmismo mediatico. Il femminicidio non può essere una pedina mediatica da posizionare su coordinate geografiche specifiche; ciò che deve far riflettere e destar spavento sono i dati relativi agli omicidi di donne uccise da uomini negli ultimi anni e le relative modalità di violenza utilizzate: solo nel 2012 sono stati registrati nel nostro paese 124 episodi di femicidio e 47 casi di tentato femicidio riportati dalla stampa (quest’ultima cifra ,quindi, da considerarsi sottostimabile); tralasciamo le percentuali tra le diverse regioni, che per la nostra prospettiva d’analisi non hanno modo di alludere a differenze di alcun genere .
I dati parlano chiaro: la vera urgenza è quella di denunciare e combattere tale fenomeno che si sta allargando a macchia d’olio in tutto il nostro paese e nel mondo intero, dal nord al sud.
Ci è sembrato però irrinunciabile cominciare dal tentativo di distruggere rappresentazioni distorte sul luogo in cui siamo cresciuti, sperando che in questo caso non sia come si dice, sperando che non sia “più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”.
Sono una studentessa fuori sede ma non ho mai lasciato la mia terra se non in senso fisico, ho avuto la piena libertà di decidere quando e come farlo, non sono scappata da nessuno; ho avuto voglia di confrontarmi con un contesto più grande di quello in cui sono nata e cresciuta, ma qualitativamente non diverso; i valori che la mia famiglia mi ha insegnato sono sempre stati compatibili con quelli delle persone che ho incontrato, viaggiando da una parte all’altra del mondo; ho avuto modo di apprezzare punti di vista diversi ma anche di risolvere i problemi peggiori grazie alle lezioni di vita e alla saggezza dei miei nonni; diverse volte mi sono sentita addosso lo sguardo ingombrante e intrusivo di uomini sconosciuti, ed era lo stesso a prescindere dal posto, dal paese, dalla regione in cui mi trovassi; ogni volta che torno nella mia terra mi sento stimolata dalla voglia di cambiamento ed evoluzione, e mai trafitta dalla rassegnazione o dalla voglia di dimenticarmi di lei. Ogni volta che torno a casa mio padre mi ricorda che la sola delusione più grande che potrei dargli è quella di non sentirmi donna in ogni cosa che faccio. Tutte abbiamo il diritto di sentirci donne meravigliose guardandoci allo specchio ogni mattina, rivedendoci nelle foto delle nostre madri e immaginandoci madri dei figli che vorremo avere.
Non c’è peggior qualunquista del meridionale che emigra al Nord e dice che giù, al Sud, in Calabria poi non ne parliamo , “è tutto uno schifo”. Ma se poi questo qualunquismo diventa una lettera pubblicata sul Corriere della sera o il post di un blog del Fatto Quotidiano, allora è meglio fare chiarezza. Anche sul qualunquismo. Perché dire che “in Calabria tutte le donne vogliono un figlio maschio” o che sono «poche quelle che amano liberamente» è un ‘assurdità pazzesca. Eppure Francesca Chaouqui, calabrese, asteriscata nel suo altisonante ruolo di “direttore delle relazioni esterne della multinazionale Ernst & Young Italia”, lo scrive davvero. Le fa eco un blog, questa volta di un uomo, Domenico Naso, giornalista, calabrese anche lui, che dice di non essere “colpito per nulla” dall’omicidio perché “questa è la condizione delle donne calabresi” .
Non passa giorno che la cronaca non si arricchisca di delitti aberranti, come quello di Corigliano, delitti che non conoscono latitudini o condizione sociale. Ed è altrettanto aberrante che ci sia chi, con una buona dose di sciacallaggio, pretende di “inquadrare” questo gravissimo fatto di cronaca come la conseguenza di una condizione della donna in Calabria. Calabresi marchiati a fuoco. Vil razza insomma.
Ho 21 anni, quasi 22. Da quando ne ho 19 vivo a Roma dove mi sono trasferita, si può dire ormai a tempo pieno, per gli studi universitari. Studio e mi do da fare. Esco e ho delle passioni. Ho amici e sono pronta a farmene sempre. Penso , parlo e agisco secondo quanto la mia testa consiglia. Vivo, tra alti e bassi, ma vivo. Eppure sono donna. Anzi peggio : eppure sono calabrese!
La mia Calabria è quella di un paese di poco più di 10.000 abitanti, piccolo, sul mare, che mi “ chiama” quando sono lontana, che mi rigenera quando sono vicina. E’ una calabria povera, di soldi, di strutture, di occasioni, di futuro, è una Calabria ricca di valori, di calore, di legami, di passato. Il mio di passato non è tanto roseo e potrei raccontarvi di quanto sia bello nascere in una famiglia meridionale che vive di tradizioni, che vive di padri che amano le figlie, di figlie che sono principesse, di padri che sono i loro principi. E’ sicuramente così. Altrettanto sicuramente non è così per tutti. A me a farmi sentire principessa ci ha pensato mio nonno, il “pater familia” per eccellenza, quello che ha lavorato da sempre per mantenere una famiglia, per difenderne la dignità. Mio nonno è quello che ha sposato una “bambina” di 16 anni , che l’ha difesa dalle malelingue, che dopo i primi due figli, maschi, desiderava ardentemente una femmina. Mio nonno è quello possessivo, geloso, autoritario perché è vero il calabrese è ANCHE questo. E’ quello che non voleva che mia madre si tagliasse i capelli, è quello che “se vuoi studiare vai dalle suore”. E’ quello che guardava con occhio circospetto e intimidatorio tutti i ragazzi le facessero la corte. Ma mio nonno è anche quello che l’ha accolta quando l’uomo che aveva scelto per la vita l’ha abbandonata. E’ quello che l’accompagnava in tribunale per le udienze del divorzio. Quello che le pagava l’avvocato. Quello che non voleva vederla piangere . Quello che non le ha sbattuto la porta in faccia, come tanti avrebbero fatto. Quello che non l’ha sbattuta neanche a me. Per tutti quelli che pensano che in Calabria l’uomo difenda l’onore del suo nome dal peccato della vergogna, sappiate che in Calabria ci sono uomini che al loro di onore antepongono quello dei loro affetti. L’onore di mio nonno sono io e lui ha difeso me, dal male, dalla violenza, dalla maldicenza e non poteva farlo meglio. Non ha mai alzato un dito ne su di me , ne su mia nonna, ne su mia madre. E ne mia madre, ne mio nonno, ne mia nonna ne nessun altro componente della mia famiglia ( tutti importanti, essenziali e indissolubili ) hanno mai ostacolato le mie ambizioni, la mia testardaggine, la mia follia. So di contare di gran lunga molto più di zero per loro. So che conterei per loro semplicemente per il fatto di essere “io”. E non pensiate che questa profusione di amore incondizionato li abbia portati ad accettare ogni mia scelta. Ho fatto la valigia e non ho fatto il test di medicina, come voleva nonna. Sono andata via è vero, ma non perché mi sentissi oppressa, maltrattata, limitata, non perché mai qualcuno mi abbia detto “cittu ca tu si filmmina, non su così pi tia”. Sono andata via per ritornare. Per rendermi conto e vedere coi miei occhi , quanto il mondo sia bello e straordinario , ma di quanto nessun posto al mondo meriti l’appellativo di “casa”. Con i pro e contro innegabili che esso comporta.
Le donne non valgono nulla? Sono le donne quelle che si stanno opponendo al sistema criminale in quella terra, sono le donne che hanno inaugurato una nuova primavera, sono le donne che vogliono un futuro diverso per i propri figli e che lottano, sudano, si battono in prima persona scegliendo anche percorsi dolorosi. Sono le donne che hanno fatto arrestare i più potenti boss. Sono le donne che ci hanno fatto scoprire il volto amaro di una Calabria piegata dalla ‘ndrangheta. Sono le donne che hanno osato sfidare criminali comuni e gli ‘ndranghetisti. Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola ne sono l’esempio lampante. Nella Calabria in cui vivo io, le donne sono emancipate, escono, viaggiano, lavorano, convivono, sono madri e mogli eccezionali e spero un giorno di essere madre e di avere dei figli, maschi o femmine, non fa differenza e prego, si ma non al santo patrono della città, ma perchè io possa essere un giorno per loro d’esempio come mia madre lo è per me.
A prescindere da dove io mi trovi, dentro di me porto l’orgoglio di questa terra, che amo, nel bene e nel male. Perché è una terra difficile dove però vale la pena di combattere. Chi non è in grado può abbandonare il campo di battaglia. Di vigliacchi ne abbiamo già tanti.
Emanciparsi non vuol dire rinnegare. Vuol dire riconoscere il problema e affrontarlo, risolverlo.
La realtà che è stata descritta è vecchia di generazioni e generazioni. La Calabria non è solo quello. Le donne calabresi non sono più vittime. E chi non se n’è accorto allora era distratto.
E chi era distratto farebbe bene a svegliarsi.
Gregorio Staglianò
Serena Procopio
Guendalina Marra