L’ultima “pièce” di Gregorio Calabretta andata in scena al teatro comunale di Soverato
«La calunnia è un venticello –, canta don Basilio nel Barbiere di Rossini –, un’auretta assai gentile, che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente, incomincia a sussurrar». E la calunnia, attraverso l’immarcescibile strumento delle lettere anonime, fa da filo conduttore all’ultima commedia, in un unico atto, Il mistero della matassa, che Gregorio Calabretta ha allestito al teatro comunale di Soverato. E che tiene per più di due ore sulla corda lo spettatore il quale, sull’esempio del living theatre, è chiamato alla fine a esprimere il verdetto su chi sia il ben documentato e anonimo autore. Che, ahimé! – classico di ogni thriller che si rispetti –, è ben lungi dall’essere identificato tra i tanti indiziati e sospettati.
In perfetto stile pirandelliano, per intreccio narrativo, i conflitti interiori, le contorte vicende personali che pervadono i tanti personaggi evocati, nonché la citazione finale della novella Il treno ha fischiato, che in ultima analisi funge da vera chiave interpretativa, la pièce merita di essere promossa a pieni voti. Ben impostato nel suo impianto narrativo, nonostante i contorcimenti delle piccanti vicende che lo sottendono, quest’ultimo lavoro del commediografo, originario di Stalettì, si è fortemente caratterizzato per i molteplici spunti di riflessione su certo costume – o malcostume? – di affrontare in Calabria le campagne elettorali. Soprattutto amministrative. E per i tratti di sana comicità che non sono mancati e che hanno deliziato il pubblico in sala.
Promosso dal Rotary Club di Soverato, a sostegno della campagna di fund raising nell’ambito del progetto del Rotary International che ha per obiettivo l’eradicazione della poliomielite nel mondo, e in collaborazione con il Teatrostudio Mediterraneo, l’allestimento si è avvalso, oltre che di Calabretta, nei panni di voce narrante-attore-affabulatore-sceneggiatore-regista, della partecipazione di Pino Sorgiovanni e della esordiente Mara Maiolo. Ridotto all’essenziale l’elemento scenografico, la trama si evolve tra monologhi e dialoghi senza tuttavia mai scadere nella monotonia o nel dozzinale. Anzi, mantenendo sempre viva l’attenzione del fruitore fino al termine.
Si è agli inizi degli anni Cinquanta, in un paese immaginario del Soveratese. La seconda guerra mondiale è finita da almeno dieci anni. È in corso la ripresa economica. In espansione lo sviluppo edilizio e l’ammodernamento urbanistico in funzione di una sempre più crescente domanda turistica. Serrata e molto sofferta è la competizione elettorale per aggiudicarsi la guida del municipio. Presenti quasi tutti i maggiori partiti nazionali: dalla Dc, sostenuta dal parroco, al Psi impersonato dal sindaco uscente, al Pci per il quale sorprendentemente parteggia il locale maresciallo dei carabinieri, all’Msi del vecchio notabile. Ma due soltanto sono gli schieramenti che si materializzano nelle liste di destra e di sinistra.
Ed ecco che, di punto in bianco, e contestualmente all’arrivo del nuovo ufficiale postale, il clima del tranquillo paese calabrese è turbato da uno stillicidio di lettere diffamatorie. Ce n’è per tutti: per il parroco donnaiolo, per il medico tradito, per il maresciallo licenzioso, per la moglie adultera del possidente. Persino per il giornalista Toto “dìcia ca sapa” e il maestro Michele, entrambi pretendenti, non corrisposti, dell’inviata del giornale del capoluogo di provincia. Tutti e tre incaricati dal sindaco di fare luce su quel che sta accadendo, dimodoché vengano al più presto stroncate le “dicerie” che vanno insinuando il tarlo della turbativa sociale ed… elettorale. Finché non accade la consueta agnizione, propria della tragedia greca: a tessere le fila è Saverio Lavaranda, un rentier che si è fatta una considerevole posizione grazie a un lungo periodo trascorso in America. E dove, seguendo un corso di apprendimento serale, ha imparato a captare il… fischio pirandelliano. Ovvero la fantasia, la sregolatezza, l’anticonformismo. Grazie al quale decide, lui pure vittima del suo stesso metodo, di squarciare quel fitto velo di perbenismo che, malgrado tutto, ha fatto finora andare avanti, senza soverchie complicazioni, quella pur decadente realtà.
(Francesco Pitaro in Gazzetta del Sud, Arte, Cultura, Spettacolo in Calabria, 30 marzo 2014)