Lo hanno ucciso proprio in quella parrocchia vicina alla palude del crimine, a due passi dalla masseria abbandonata dove è avvenuta l’orrenda strage (un bimbo bruciato, il nonno e la sua amante trucidati e inceneriti), trucidato senza scampo, negando il tempo a chiunque, per un gesto di estrema pietà e misericordia. Il doloroso epilogo di una vita consacrata, di Don Lazzaro Longobardi, sessantanovenne, nato il 15 maggio 1945, ordinato sacerdote il 23 luglio 1971 incardinato arciprete della chiesa di San Raffaele a Sibari, frazione di Cassano Ionio, si è consumato dopo le brutali randellate inferte da una mano omicida nelle prime ore di un mattino di marzo. Il sangue che ha bagnato la terra consacrata nel cortiletto della pieve agreste, il lutto che segna di nero e sconvolge la quiete dei fedeli della diocesi di Cassano sono l’ennesimo episodio di una sequela di delitti, giunti fino al sacrilegio, che sta devastando la pace e la tranquillità di una diocesi alla cui guida c’è don Nunzio Galantino, il prelato che papa Francesco ha voluto a Roma in testa ai vescovi italiani. Una immagine livida di violenza e orrore conficcata da tutti i media nazionali ed esteri dentro i notiziari che si aggiornano di ora in ora. “Era un santo, aiutava tutti. Non si meritava di fare una fine così” questo dice la folla radunata davanti al sagrato. Ammazzare un prete non è una cosa facile. Qualunque sia il vissuto, qualunche sia colpa, uccidere un sacerdote, non solo per chi ha fede, oltre al peso tragico del crimine è sempre un fatto che strappa con violenza, recide nel sangue il sentimento umano della sacralità. Nel 2013 ne sono stati uccisi 22 nel mondo, prevalentemente in America Latina. A Don Lazzaro, prete di Calabria, adesso nessuno mai più dirà, alzati e cammina.
Vito Barresi